Recentemente ho avuto modo di informarmi un po' su una nuova interessante teoria con obiettivi culturali ed ambientali piuttosto ambiziosi: la teoria Rifiuti Zero.
Semplificando, questa teoria rovescia il punto di vista attualmente predominante, cioè parte dal presupposto che la produzione di rifiuti non sia affatto inevitabile, anzi sia un errore. Se in un processo viene prodotto un rifiuto c'è qualcosa di sbagliato, da cambiare.
A sua volta questa affermazione si basa su alcuni concetti di ecologia ormai consolidati, che cerco di riassumere.
Sopravvivere in natura comporta una competizione discretamente feroce, e questo vale per tutti gli organismi, dai batteri in su. L'evoluzione naturale ha portato ciascun gruppo di esseri viventi a trovare la propria “nicchia ecologica”, cioè il proprio modo di sopravvivere senza entrare troppo in competizione con altri organismi. Questo ha fatto sì che gli “scarti” (passatemi il termine) prodotti da alcuni esseri viventi divenissero una risorsa per altri, e che si instaurassero dei veri e propri cicli chiusi, con un riutilizzo infinito e pressochè completo degli elementi chimici che compongono la crosta terrestre.
Utilizzando una terminologia più corretta si parla appunto di “cicli bio-geo-chimici”, ad indicare l'insieme delle trasformazioni chimiche e biologiche che avvengono in natura e che riguardano tutti gli elementi come carbonio, ossigeno, azoto, zolfo, fosforo, ecc... in un ciclo chiuso senza fine e senza sprechi.
L'uomo ha invece interrotto questi cicli, inventando processi produttivi di tipo “lineare”, che iniziano con il consumo di risorse e finiscono con la produzione di rifiuti, senza considerare il destino dei rifiuti stessi.
In realtà molti dei rifiuti prodotti possono essere smaltiti dall'ambiente naturale, ma i tempi necessari sono molto più lunghi rispetto ai ritmi con cui i rifiuti stessi vengono prodotti, quindi di fatto i rifiuti si accumulano sempre più.
Altri tipi di rifiuti, invece, non possono essere facilmente smaltiti dalla natura, e anche in questo caso la spiegazione si trova nell'evoluzione naturale e nelle nicchie ecologiche. Gli ecosistemi infatti si sono evoluti in modo da riutilizzare solo le molecole disponibili, non “tutte” le molecole (vista l'aspra competizione per la sopravvivenza, che senso avrebbe per un qualsiasi gruppo di organismi sviluppare col tempo un metodo per -che so- digerire il PVC se nel proprio ambiente di PVC non ce n'è?). Ecco quindi che tutti quei rifiuti provenienti da sostanza estratte dalle profondità della crosta terrestre, o profondamente trasformate con processi artificiali, non sono biodegradabili. In altre parole, quelle sostanze non hanno mai fatto parte di una nicchia ecologica per nessun organismo, quindi non si sono mai evoluti meccanismi in grado di riutilizzarle.
Con il passare dei secoli e lo svilupparsi delle tecnologie, l'uomo ha interiorizzato il concetto che la produzione di rifiuti, per quanto deprecabile, non possa essere evitata (anche alcuni miei insegnanti, spiegando la gestione dei rifiuti, partivano dal presupposto che “tutte le attività umane producono rifiuti”). L'attenzione quindi si è concentrata su come “smaltirli”, affrontando così solo una parte del problema, mentre l'approccio più efficiente in assoluto (in realtà l'unico veramente corretto) è concentrarsi su come “produrne meno”, o addirittura “non produrne affatto” (rifiuti zero).
Qui il problema esce dal campo strettamente scientifico/tecnico e si sposta con prepotenza sul piano economico/sociale, perchè si vanno ad intaccare direttamente le nostre abitudini, le nostre comodità e anche le nostre tasche.
Prendiamo ad esempio gli imballaggi (scatole, pacchi, sacchetti, casse, pellicole, ecc...), che costituiscono una frazione molto importante dei rifiuti urbani. Per inquadrare il problema pensate ad esempio un fast-food, e pensate al volume del cibo paragonato al volume di plastica e carta che poi viene buttato -tutto insieme senza separazione- come rifiuto. Altri esempi calzanti possono essere essere quelli delle monoporzioni di cibo preconfezionato, o delle merendine imbustate una ad una dentro alla scatola di cartone a sua volta dentro alla busta in plastica, ecc...
Ebbene, rifiuti zero significa anche ridurre al minimo gli imballaggi delle merci, ma questo comporta:
- Più scomodità per il consumatore, che non troverebbe la merce già porzionata, pulita, pronta al consumo;
- Minori introiti economici per le imprese che producono gli imballaggi e che li utilizzano per pubblicizzare il prodotto;
- Minori introiti economici per le imprese che riciclano i rifiuti (e stiamo parlando di cifre immense, come testimoniato già nel 1992 da un pentito di mafia che riferì nel carcere di Vicenza che “la monnezza è oro”).
Si tratterebbe in sostanza di sostituire la cultura imperante del “consuma, goditi la vita e non pensare a nulla” con una cultura più austera e consapevole, che è un cambiamento piuttosto radicale, anche perchè -e qui torniamo di nuovo all'ecologa- non è solo una questione di cultura, ma anche di istinto.
Essendo animali, infatti, anche noi umani siamo “programmati” per la lotta alla sopravvivenza. Come tutti gli esseri viventi, abbiamo scritto dentro al nostro codice genetico che dobbiamo sempre cercare di aumentare al massimo le nostre prospettive di sopravvivenza, quindi: più risorse = bene; meno risorse = male.
Analogamente: consumo di risorse = bene (perchè gli animali allo stato brado non sanno quando mangeranno la volta successiva, quindi consumano tutte le risorse che possono non appena le hanno a disposizione), mentre auto-limitarsi nel consumo di risorse = male (perchè potrebbe “rubarle” qualcun altro, riducendo le nostre possibilità di sopravvivenza). A questo proposito è emblematico un esempio che ho studiato all'università nel corso di etologia, in cui un falco appena dopo un pasto si era trovato per caso vicino ad un topo. Ebbene, avendo la pancia piena, il falco avrebbe potuto tranquillamente lasciar vivere il topo, invece lo ha immediatamente ucciso, lasciandolo lì senza mangiarlo. Questo apparente “spreco” deriva proprio dall'istinto di uccidere le prede che il falco “deve” avere, perchè se quell'istinto non fosse presente, il falco non potrebbe sostenere la lotta per la sopravvivenza. Anche noi umani abbiamo dentro lo stesso tipo di istinto, che ci porta ad accumulare risorse sempre e comunque, anche scapito degli altri.
Inoltre, come per tutti gli esseri viventi, dentro al nostro codice genetico manca completamente la preoccupazione per il destino dei rifiuti che produciamo (tanto, se fossimo animali allo stato brado, ci sarebbero altri organismi che vivrebbero proprio grazie ai nostri scarti, quindi il problema non si porrebbe). Ci basta non averli troppo vicino a noi, per evitare malattie.
Infine, come per gli altri animali, nel nostro codice genetico è molto ridotto l'istinto di preoccuparsi astrattamente del benessere delle generazioni future (che infatti è normalmente è limitato ai nostri figli), perchè generalmente in natura le risorse sono talmente poche che l'unica auto-limitazione sensata al consumo è quella che permette ai nostri figli di crescere abbastanza da poter provvedere autonomamente a sé stessi.
Ora, tutti questi istinti sono giustificati e funzionali alla sopravvivenza solo in condizioni di perenne scarsità di risorse, condizioni che (almeno nella nostra parte di mondo) la tecnologia ha permesso di superare. E' facilmente intuibile che al contrario, in condizioni di abbondanza di risorse, gli stessi istinti possano portare al rapido sovrasfruttamento dell'ambiente e quindi ad una quasi-estinzione (evento che infatti talvolta capita in natura, perchè gli altri animali non hanno gli strumenti culturali per poter controllare i loro istinti).
Da questo lungo discorso si capisce allora come il cambiamento di mentalità necessario per il successo della teoria “rifiuti zero” sia estremamente profondo. Prendere coscienza degli istinti naturali che fanno parte di tutti noi è fondamentale non per giustificare un eccessivo consumismo, ma per capirne l'origine. In questa ottica non stupisce che il messaggio di fondo di quasi tutte le pubblicità sia proprio “consuma, goditi la vita e non pensare a nulla” e che abbia un enorme successo commerciale perchè si rivolge direttamente ai medesimi istinti. Di più ancora: la conoscenza di questi meccanismi, oltre a permetterci di comportarci consapevolmente, può favorire il cambiamento aiutandoci a far leva su un altro istinto scritto nel nostro DNA, forse il più potente di tutti: quello di non portare la nostra stessa specie all'estinzione.
4 commenti:
sai che tengo molto a questi argomenti, anche se sono dolorosi -__-
Comunque, li spieghi in modo molto semplice, bravo!
Posso dire che alcune persone sono disposte a fare piccoli sacrifici per produrre meno rifiuti, ma son troppo poche per fare la differenza, il problema è davvero immenso e ci vorrebbe una rivoluzione per risolverlo.
E chi guadagna da queste montagne di rifiuti si vede che non ama abbastanza i propri figli.
Comprendo e appoggio appieno la mentalità del produrre meno rifiuti, del dividerli per riciclare il possibile, ma il NON produrne è davvero possibile o si tratta di una teoria utopistica?
@Francesca:
In effetti lo vedo come un lavoro di lungo periodo: noi dobbiamo prendere coscienza del problema oggi, affinchè la prossima generazione cresca in un contesto in cui la mentalità dei "rifiuti zero" sia la norma. Altrimenti, come dici tu, servirebbe una rivoluzione...
@Michela:
Personalmente credo che fissare un obiettivo ambizioso come il "non produrre rifiuti" (o, quando non è possibile, produrre rifiuti recuperabili al 100%) sia necessario. Visto che "la necessità aguzza l'ingegno", credo che se non si punta molto in alto non si faranno mai dei veri passi avanti.
La ringrazio per Blog intiresny
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